Le presunte controindicazioni al reddito di base

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Si, però.

Naturalmente, c’è sempre chi ritiene che una tale rivoluzione e semplificazione delle prestazioni pubbliche a favore dei cittadini non vada bene.

In linea di massima sono tre i filoni di contestazione su cui si muove lo scettico non potendosi aggrappare all’insostenibilità economica che abbiamo dimostrato essere inesistente:

l’effetto “inflazione”, ovvero l’aumento dei prezzi derivante dall’aumento della domanda di alimenti e beni di prima necessità;

l’effetto “chiamata”, ovvero un Paese che paga per non lavorare attirerebbe una forte immigrazione, magari dall’Africa;

l’effetto “indolenza”, ovvero il non trovare più nessuno disposto all’impiego, specie se pesante o poco allettante.

In merito all’aumento della pressione inflazionistica questa è in parte innegabile, specie nelle aree più povere del Paese. Appare naturale credere che, se il Mezzogiorno d’Italia cresce economicamente per l’arrivo di provvidenze pubbliche che aumentino il denaro circolante, vi possa essere un riflesso sul prezzo di quei beni di prima necessità per i quali prima si soffriva la carenza. D’altro canto è pure vero che lo Stato non stampa nuova moneta, né ne giunge dall’estero. Non c’è, nei fatti, un aumento di denaro ma una sua semplice redistribuzione. C’è, al più, un limitato smobilizzo di somme depositate sui conti correnti bancari, per la parte interessata all’imposta patrimoniale su queste somme suggerita, per finanziare in parte il reddito di base. Una adeguata oscillazione dell’imposta sul valore aggiunto (IVA), tuttavia, potrebbe fare da bilanciere per i prezzi.

L’effetto “chiamata”, specie con l’aria che tira, potrebbe apparire più preoccupante. Tuttavia, in merito, occorre ricordare che si è proposto un reddito di base condizionato a due requisiti: cittadinanza e residenza. L’unico “effetto chiamata” possibile sarebbe solo quello che inviterebbe i nostri concittadini emigrati all’estero a ritornare sul territorio natìo.

Più interessante è il tema dell’ultima preoccupazione, il possibile effetto “indolenza”.

Qui gli scettici hanno un illustre alleato, forse, o forse no.

Tommaso Moro [1] già nel 1516 nella propria opera Utopia contestava così:

Come è possibile l’abbondanza, se tutti rifiutano di lavorare? Infatti manca la prospettiva di guadagno e la fiducia che si ripone nel lavoro altrui rende indolenti. Ma se di conseguenza si sprofonda nella miseria e nessuno può difendere ciò che ha ottenuto con il lavoro delle sue braccia, non si verificheranno necessariamente continue rivolte e spargimento di sangue? [2]

Il timore di Moro appare esagerato per diversi ordini di fattori. Il reddito di base è sufficiente a garantire solo i bisogni più elementari. Macchine, robot o programmi informatici non faranno che sempre più limitare l’esigenza di personale. Ogni essere umano tende ad una propria realizzazione, che può essere raggiunta anche con un lavoro.

Si tratta solo di cambiare un paradigma: dal lavorare per necessità al lavorare per piacere. L’impiego, cioè, dovrà divenire più allettante intervenendo su quei contesti ambientali di lavoro che oggi lasciano insoddisfatti (retribuzione, relazioni interpersonali con pari e superiori, locali insalubri, carenze nella sicurezza, procedure dell’impresa).

Si dovrà necessariamente intervenire sull’orario di lavoro, in maniera ancora più energica rispetto alle proposte avanzate dalle forze politiche comuniste e anti-capitaliste nella campagna elettorale del 2018 [3]. Le ventiquattro ore lavorative settimanali potrebbero rappresentare un punto di equilibrio tra la citata proposta di Keynes delle 15 ore e quella comunista dello scorso anno. La contemporanea adozione di un salario minimo nazionale, poi, oltre che allinearci ai restanti ventidue Stati europei dove questo è già una realtà, comporterebbe l’elevazione della paga oraria in maniera sufficiente da rendere sempre attraente l’impiego.

Qualcuno potrebbe obiettare, in tal caso, che il costo del lavoro è già alto in Italia. La media del costo per ora di lavoro nel nostro Paese è stata pari a 28,2 euro nel 2017 (valore peraltro pressoché costante dal 2013) mentre la media EU-28 era invece di 26,8 euro [4]. A costoro si potrebbe rispondere che la media mette assieme i Paesi dell’Europa dell’est quali la Bulgaria (costo ora lavoro pari a 4,9 euro), la Romania (costo 6,3 euro) o la Polonia (costo 9,4 euro) a quelli più avanzati economicamente (la Norvegia ha un costo per ora lavorata pari a 51 euro, mentre l’Islanda 42,6, la Danimarca 42,5, il Belgio 39,6). In ogni caso, è ipotizzabile che taluni oneri sociali che oggi gravano sui datori di lavoro (che poi creano il cosiddetto effetto cuneo fiscale [5]) possano essere ridotti col venire meno, grazie al reddito di base, delle esigenze assistenziali cui sono connessi (penso agli assegni familiari o all’indennità di disoccupazione o NASPI).

Tornando a Tommaso Moro, nel suo libro fa raccontare al viaggiatore Raffaele Itlodeo, personaggio da lui ideato, la vita a Utopia. Non è lontana da quella che qui idealizziamo, ad esempio sulla distribuzione del lavoro, nella durata della giornata lavorativa, sulle opportune attività culturali e sociali che si possono svolgere fruendo d’un maggiore tempo libero:

l’usanza di dare ogni anno il cambio a quelli che si occupano d’agricoltura è rispettata in maniera solenne affinché non succeda mai che qualcuno si trovi costretto contro la propria volontà a un lavoro tanto faticoso e duro. […]

nessuno si abbandoni all’ozio, ma che tutti facciano il proprio dovere impegnandosi al massimo, senza però ammazzarsi di fatica lavorando come bestie dall’alba al tramonto, perché una condizione simile è peggiore alla schiavitù. Eppure è quella che accomuna operai e artigiani in ogni Paese, tranne che a Utopia.

Spesso nei momenti liberi si dedicano alle lettere. […] tengono pubbliche lezioni […]. Dopo cena dedicano un’ora ai giochi, d’estate nei giardini e d’inverno nei refettori comuni. Qui s’intrattengono con musiche o conversazioni oneste e buone. Non conoscono o dadi o altri passatempi stupidi e dannosi, ma hanno due giochi che somigliano in un certo modo agli scacchi […] [6].

In Utopia è poi spiegata quanto e perché le sole sei ore di lavoro siano sufficienti, «persino eccessive», per produrre i beni necessari e per avere di che vivere comodamente. Rimando al testo dell’opera la lettura della efficace spiegazione. Qui solo a sottolineare una parte perché più utile a rassicurare chi ancora è scettico e teme per l’andamento dei servizi:

Note

[1] Il letterato e giurista inglese Thomas More (Londra 1477-1534).

[2] MORO, Utopia, edizione Giunti, Firenze 2014, pag. 64. Traduzione di Davide Sala.

[3] Potere al Popolo, Partito Comunista, Partito Comunista dei Lavoratori alle Politiche 2018 proponevano le trenta ore lavorative settimanali.

[4] EUROSTAT (2018a, o.l.), Labour costs annual data – NACE Rev. 2.

[5] La differenza tra quanto costa un dipendente al datore di lavoro e quanto riceve al netto lo stesso lavoratore, calcolata in percentuale del salario lordo. Il cuneo fiscale in termini reali è approssimativamente uguale alla somma delle aliquote sulle imposte indirette, su quelle dirette e sugli oneri sociali a carico del reddito da lavoro dipendente.

[6] MORO, Utopia, edizione Giunti, Firenze 2014, pag. 72, 80-82. Traduzione di Davide Sala.

[7] MORO, Utopia, edizione Giunti, Firenze 2014, pag. 82. Traduzione di Davide Sala.

[8] MORO, Utopia, edizione Giunti, Firenze 2014, pag. 82. Traduzione di Davide Sala.

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